“Houses of the Holy” – Led Zeppelin (1973)

Siamo nel 1973 e da quel 1969 che aveva visto i Led Zeppelin sconvolgere il mondo musicale, trasfigurando il british blues di matrice americana in una specie di hard-rock embrionale, erano passati solamente 4 anni. Quattro anni che in quel periodo di fermento e caos artistico-musicale, erano un’eternità. Basti pensare che il più grande genio mancino che abbia mai imbracciato una chitarra, Jimi Hendrix, “lavorò” proprio solo 4 anni, ma che sembrano a noi 20 o 30. Ecco questo era “quel periodo”, una specie di buco temporale, in cui il tempo e lo spazio non parevano avere l’importanza che gli diamo oggi. C’era la sensazione di dover fare tutto e subito, di scrivere le idee, registrarle, arrivare prima di qualcuno che magari stava sveglio la notte proprio con la stessa idea e avrebbe potuto “rubarla”. Un ribollire di menti e artisti davvero unico e che non si ripeterà mai più. La band capitanata dal mago, non solo della chitarra, ma anche della produzione Jimmy Page, era arrivata al quinto disco. Dopo quattro dischi che, come detto, avevano rivoluzionato la concezione stessa della musica pop-rock dell’epoca, di fatto un genere, che poi, a loro volta, avevano stravolto portando il loro sound su dei lidi di rock acustico con influenze folk che nessuno aveva mai neanche immaginato. Ecco anche a livello commerciale era tutto nuovo, nessuna casa discografica aveva mai avuto a che fare con una band che rifiutava qualsiasi tipo di standard : niente titolo, niente nome sulla copertina, niente riferimenti precisi alla band, niente singoli. Per gli esperti erano suicidi commerciali che invece vennero ampiamente smentiti dalla storia. Quando poi ci si era abituati a quel susseguirsi di numeri romani che davano il nome ai loro dischi e i fan quindi si aspettavano il seguito (sia di titolo che musicale), ecco arrivare finalmente un disco con un nome, Houses of the Holy. Avvolto anche lui dal mistero che avvolgeva qualsiasi cosa Page pensasse o facesse, sempre anti-commerciale quindi senza alcun riferimento sulla copertina, ma più vicino a quegli standard che fuggivano come la peste. La copertina, una delle più belle e innovative mai viste su di un di un disco di musica rock, raffigurava la distesa di colonne di basalto della località di Giant’s Causeway in Irlanda del Nord, solcate da dei bambini che vi si arrampicavano (in realtà sono due gemelli di 7 e 5 anni, Samantha e Stefan Gates). Lo studio fotografico Hipgnosis creò un capolavoro che oggi di certo non sarebbe stato possibile e anzi oggi porta problemi di censure varie sui social se qualcuno tenta di usare la copertina per celebrare questo meraviglioso disco…assurdo. Rispetto ai dischi precedenti la Atlantic Records , ottenne dalla band il permesso di applicare delle fascette di carta con nome del disco e della band, per aiutarne le vendite. Non sappiamo se servì allo scopo, ma il disco fece il consueto botto in tutto il mondo. I pezzi che compongono l’ennesimo capolavoro  targato Page, Plant, Jones e Bonham, e con l’aiuto determinante del mago della console Eddie Kramer, sono 8 e stupiscono subito al primo ascolto per la solita maniera eclettica e mai banale di approccio al rock. Ci sono influenze di ogni tipo e in alcuni passaggi assistiamo in pratica all’introduzione di nuovi generi e coraggiose influenze che vanno dal folk al reggae. La critica al solito li stroncò, ma con loro avevano un conto aperto e conosciamo bene l’odio di Page per i critici musicali. Le registrazioni avvennero anche nella casa di Mick Jagger a Stargroves, come si usava in quegli anni folli e creativi, il camino diventava il luogo dove gli amplificatori rendevano il suono magico e il salotto era buono per la batteria.  L’apertura del disco è folgorante, The Song Remains The Same doveva essere un brano strumentale e lo sembra, il riff iniziale con la dodici corde di Jimmy Page è elettrizzante, gli assolo che si sovrappongono e il basso di John Paul Jones che impartisce lezioni di ritmica al pari di un grande jazzista, la batteria di Bonham che inventa un suono che nessuno eguagliò mai. Un brano talmente eccezionale che il buon Plant non ne voleva rimanerne fuori e si inventò un testo, che ora, ci pare davvero perfetto da incastonarci. La sua voce era sempre la stessa, inarrivabile ugola rock, un brano che rivestì sempre un’importanza cruciale delle loro esibizioni live e diede pure il titolo al loro film-concerto. Concerti che erano lo spettacolo più richiesto del mondo, spettacoli fiume di oltre 3/4 ore che nessuno aveva mai fatto, il mondo messo a ferro fuoco in lungo e in largo a bordo del loro jet privato lo Starship. Proprio dopo uno di questi concerti a Los Angeles, Page venne quasi sfidato dal buon George Harrison dei Beatles, che era un loro fan : “ragazzi voi non avete una ballad per fare presa sulle ragazzine come noi, non le sapete scrivere”. Ecco la spinta necessaria per scrivere The Rain Song, un fantastico intro acustico e un testo sognante, la voce di Plant fece il resto : capolavoro.  Over The Hills and Far Away pare ricalcare le stesse orme del brano precedente : chitarra folk acustica come incipit e la voce delicata di Plant, un’altra ballata quindi? No perchè in un climax di emozioni innovatrici per l’epoca, la scena viene presa da un riff graffiante di Page e dalla solita indiavolata ritmica del duo Bonham-Jones. L’abilità di passare dalla ballata al rock, della voce di Plant, era uno dei segreti della band. Un cantante con questa abilità era e resterà quasi unico. 4 artisti che nel loro ambito erano i migliori e assieme erano inarrivabili. Spiazzare era nelle corde dei 4 ragazzi inglesi e ci riuscirono alla grande con la successiva The Crunge, un pezzo divertente che prende ispirazione chiarissima dai lavori del mago del funk James Brown. La genialità di John Bonham nell’improvvisare in studio con idee pazze era stata messa su disco. Fa la sua comparsa anche il sintetizzatore per la prima volta. Contestualizzate il brano nel 1973 e avrete un pezzo che, pur non essendo un capolavoro, sarà davvero unico. L’escursione nel pop-rock di Dancing Days, sembra un modo di dire al mondo “possiamo suonare e scrivere qualsiasi genere meglio di tutti” e il suo sound è stato anche il motivo per cui, così hanno raccontato in seguito, la title-track venne scartata e poi riproposta nel successivo Physical Graffiti : troppo similitudini che avrebbero reso un po’ ridondante il concetto. Per inciso fra le due canzoni Houses of the Holy era decisamente più ispirata. Ecco la successiva D’yer Mak’er è la canzone che più lasciò i fan esterrefatti e anche un po’ delusi : un pezzo ispirato al reggae che dissero di avere composto e registrato appena dopo l’opener, in pratica la band aveva bisogno di allegria e leggerezza. Leggera si ma non banale, certo strana, ma innovativa. Anche qui aleggia la sensazione che Page godesse e non poco a registrare cose che nessuno si aspettava da lui, dimostrare che producesse come nessuno. La seguente era di una bellezza talmente lampante e lucente che tutti si dimenticarono del reggae precedente, No Quarter è una ballata rock molto cupa che la tastiera meravigliosa (arricchita dall’uso del mellotron) di Jones, a cui va riconosciuta la scrittura del pezzo, dona un’atmosfera sognante, da racconto fantasy. Il riff generato dalla sei corde di Page è un monolite emozionale che accompagna l’ugola di Plant verso vette di qualità mai neanche pensate. Il pezzo è lunghissimo, 7 minuti, ma nessuno se ne accorgerà tanto si è intenti a chiudere gli occhi e lasciarsi guidare in questo bosco nebbioso delle campagne inglesi, un’affresco dipinto su nastro, uno dei pezzi più belli e innovativi mai scritti. Amici siamo nel 1973 e certi suoni nessuno li aveva mai nemmeno immaginati, figuratevi metterli su bobina magnetica. Il disco si concluderà con un brano che stempera in maniera mirabile la tensione emotiva del precedente, The Ocean (l’oceano a cui si riferisce è la folla di fan adoranti che li seguono) però innalza il tono rock e la voce di Plant sfodera una prestazione super, ma è la batteria a rendere il brano di una riuscita, inarrivabile, semplicità. Il segreto del sound compatto e granitico era lui, il compianto John Bonham, la cui tragica scomparsa nel 1980, mise fine alla band e al suo sound. Certo l’up and down che Jimmy Page regala con le dita sulla sua meravigliosa sei corde sono un gioiello di inestimabile valore e il brano è la degna conclusione di un lavoro coraggioso e musicalmente perfetto, che regalò alla band la testa in un tutte le chart del globo. I Led Zeppelin dopo questo lavoro non avevano finito di stupire e regalare pietre miliari : il concerto più numeroso della storia a Tampa, la fondazione della propria etichetta Swang Song Records, ma soprattutto il doppio disco Physical Graffiti, che uscirà appena due anni dopo e sarà l’ennesimo capolavoro, forse l’ultimo di una incredibile discografia. Discografia che sarà poi inevitabilmente segnata dal tramonto di un decennio che aveva esaurito la sua folle corsa, da tragedie personali e dall’inizio ancora più tragico del decennio successivo, ma questa è un’altra storia che non intacca il valore di un disco come Houses of The Holy. Album che deve necessariamente essere considerato come uno dei più importanti della storia della musica.

Buon ascolto,

Trex Willer

(potete trovare la versione inglese dell’ articolo a questo link : https://www.trexroads.com/houses-of-the-holy-led-zeppelin-1973-english/ )

 

Pubblicato da Trex

Sono un blogger e scrittore appassionato di musica indipendente americana. Scrivo gialli polizieschi e ho inventato il personaggio del detective texano Cody Myers.

Verified by MonsterInsights